domenica 3 luglio 2011

LA MORTE DI FERDINANDO II

La morte di Ferdinando II coincise con la scomparsa intellettuale e spirituale dei popoli meridionali dalla storia. Al tempo stesso la morte del Borbone determinò anche la fine della configurazione monarchica nella storia.

Al suo regno ne successe un altro di breve durata e poi venne una nuova dinastia non più rappresentante della legittimità monarchica ma strumento subordinato di una Legge e di una Costituzione nelle quali risiedeva il nuovo potere. Con Ferdinando II, perciò, finisce anche l'idea tradizionale di Monarchia.

Ora, poichè riteniamo maturi i tempi per la ripresa del cammino nella storia dei popoli meridionali è inevitabile che si debba ripartire dal più grande Re che la storia meridionale dei tempi contemporanei abbia conosciuto: Ferdinando II.

E poichè egli non esercitò la Sovranità silenziosamente, cercheremo di comprendere n suo messaggio attraverso la quotidianità dei comportamenti pubblici e privati. Ferdinando II, che conosceva alla perfezione la lingua francese, si esprimeva abitualmente in lingua napoletana e siciliana, ad alta voce, affinchè tutti potessero ascoltarlo e comprenderlo. Queste lingue si prestavano a discorsi gergali, dalla morale sottintesa e ciò gli permetteva di dare lezioni che avevano sempre delle ripercussioni nella pubblica moralità.

Era un modo ben preciso di esercitare la Sovranità.

Ovviamente le due lingue erano usate con reciprocità da tutti: in privato come a corte, tra gli ufficiali e tra i popolani. Era una manifestazione di napoletanità che si estendeva ai gusti. Tutto doveva essere napoletano. I sigari, sua costante passione, erano anch'essi rigorosamente napoletani. Si può, perciò, dire che Ferdinando II fu un principe napoletano in tutto incarnando la figura del pater familiae meridionale ottocentesco. La sua tavola non aveva nulla di sfarzoso: era simile a quella di un qualsiasi benestante napoletano del tempo. Il piatto tipico era rappresentato dai maccheroni. Ghiotto di baccalà, gustava il soffritto e la caponata. Vero cultore della cipolla cruda, ne mangiava ogni giorno convinto delle sue proprietà benefiche. Amante della pizza, aveva fatto costruire un forno a legna nel parco reale di Capodimonte da Domenico Testa, il figlio del più celebre pizzaiolo che aveva fatta fortuna ai tempi di suo nonno, il re Ferdinando I.

Dalla tavola al talamo. Ottimo marito e padre affettuoso fu sempre fedele al sacramento del matrimonio e la critica antiborbonica, che setacciò tutta la sua vita, nella serietà coniugale riconobbe un aspetto del carattere non suscettibile di censura. Devoto sin 'anche nella ritualità gestuale ed esteriore, con gli anni accentuò gli scrupoli religiosi.

Il De Cesare raccolse tanti aneddoti attorno alla sua pietà religiosa. E' utile conoscerli per comprendere meglio il personaggio. Se era in carrozza, incontrando un sacerdote che portava il Viatico, si fermava, scendeva e, a capo scoperto, si genufletteva su entrambe le ginocchia, restando nella devota posizione sino a quando il viatico era passato. Ascoltava la messa ogni giorno, si confessava spesso e tutte le sere, riunita la famiglia, recitava il rosario. Entrando nella camera matrimoniale, prima di coricarsi, baciava con le mani le immagini sacre che adornavano le pareti ed infine recitava le preghiere inginocchiato ai piedi del letto. Tuttavia non fu mai un bigotto; anzi era attento a smascherare gli impostori che cercavano di attirare la sua benevolenza facendo i bizzochi. Un giorno riprese l'architetto di corte Francesco Gavaudan perchè costui, volendo manifestare zelo religioso aveva messe nel cappello alcune immaginette sacre per farle cadere al passaggio di Ferdinando, scoprendosi il capo. Il Re la prima volta fece fnta di niente; la seconda, persa la pazienza, disse: "don Ciccì, levate sti santi da dinto 'o cappiello, e finimmo sta cummedia".

In Ferdinando II si concentrarono tutti gli aspetti del meridionale che visse nella prima metà dell'Ottocento: epoca di fermenti, di speranze e di ottimismo. Valori falliti assieme alla storia del popolo sudista, con la rivoluzione del 1860.

Il Re aveva due tenute nel Tavoliere delle Puglie, a Tressanti e a Santa Cecilia. Quando giungeva il tempo della Fiera di Foggia, la più importante manifestazione agricola della zona, egli ci teneva ad essere presente, girando, orgogliosamente, nel suo bel vestito di velluto verde, comportandosi come un buon latifondista pugliese che andava a comperare cavalli e a vendere i suoi prodotti. Si trovava a proprio agio perchè aveva preso a conoscere i proprietari che giungevano a Foggia per la manifestazione e si divertiva nell'apprendere dei matrimoni che annualmente venivano combinati tra i padiglioni della Fiera. Terminato lo svago foggiano, smetteva l'abito di velluto e tornava ad indossare l'uniforme militare. Con questa immagine è stato consegnato alla storia per quel dipinto, eseguito da Vincenzo De Mita detto il foggiano, che, litografato, troneggiava in tutti gli uffici pubblici del regno.



E' un'immagine semplice e bonaria: il Re compare nell'uniforme blu di comandante in "capo dell'esercito con l'immancabile sigaro napoletano nella mano destra.

Cos'altro si può aggiungere per illustrare la personalità ferdinandea? Profondo conoscitore del genere umano, basava le sue osservazioni su elementi semplici: era convinto che per risolvere i problemi bastasse il senso comune e con questo criterio valutava il carattere degli uomini. Dei quali non gli interessava il censo o le virtù quanto le debolezze. Dal comportamento spigoloso e tagliente, nel bene e nel male, non celava mai sentimenti e rancori. A causa della sua diffidenza verso tutti i pubblici funzionari impartiva continuamente rigide disposizioni. Era giunto a proibire, a corte, qualsiasi gioco di denaro mentre nei locali pubblici di tutto il regno erano proibiti i giochi d'azzardo. Obbligato a convivere col difficile mondo di corte ove inevitabilmente si annidavano l'adulazione e l'ipocrisia dei cortigiani, si rifugiava ogni volta che l'occasione lo consentiva, nelle feste popolari, trovandosi a proprio agio. Qui coglieva l'occasione di conoscere e fraternizzare con il popolo, il suo popolo, il popolo napoletano, stringendo solidi rapporti all'insegna di quella che è stata definita la borbonica cordialità. Arduo modo di esercitare la regalità, ma efficiente sistema per comprendere le necessità e le idealità della società civile. Amico del popolo e diffidente verso i ceti agiati, pensò sempre che dalle file di questi ceti fossero usciti i nemici della monarchia e della società cristiana. Non nascose mai la sua antipatia per gli avvocati, i paglietta, sui quali faceva ricadere le responsabilità dei drammatici avvenimenti che portarono ai fatti del 15 maggio 1848. In conseguenza qualcuno, molto opportunamente, lo ha definito re degli umili. Di essi effettivamente si circondò ogni qual volta le circostanze lo consentirono. Dalla scelta dei sacerdoti chiamati ad impartire l'educazione religiosa ai principi reali, tutti di umile origine 7 , ai fedeli marinai della lancia reale provenienti in massima parte dal popolare rione di Santa Lucia.
di Francesco Maurizio Di Giovine

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